Proposta Radicale 8 2023
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Recensioni

L’atomo inquieto. Un mistero, sette vite

di Valter Vecellio   
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Una Costituzione per il mondo

di Michele Minorita 
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L’atomo inquieto. Un mistero, sette vite

L’atomo inquieto. Un mistero, sette vite

di Valter Vecellio   

Chissà se è una semplice coincidenza. Nel sistema della kabbalah, il numero “sette” rappresenta il trionfo e la spada in grado di raggiungere il loro punto di origine. Il “sette” governa la materia, elimina dubbi ed errori, è “animato” da impulsi e grandi desideri di miglioramento: un numero basato su scienza e saggezza. I biblisti sostengono che fa riferimento a un marcato simbolismo: tutto ciò che ci si aspetta sarà perfetto e pieno, carico di purezza: l’anima al di sopra di aspirazioni materiali, che anela perfezione non solo positiva, ma anche negativa: perché anche nel male ci può essere perfezione.

La “coincidenza” è nel fatto che il protagonista del romanzo di Mimmo Gangemi ha, per l’appunto, sette vite: geniale scienziato, sia pure disadattato e in fuga da se stesso; disperato tubercolotico che cerca una via d’uscita e ricorre all’inganno; fuggitivo braccato da americani e inglesi; ancora scienziato ospitato dalla Germania nazista; fuggitivo con improbabile identità, al momento del crollo del regime; latitante in Sud America; infine barbone che si rintana in una aspra zona della Calabria…

Anche qui, nel “percorso” immaginato e raccontato da Gangemi, il protagonista più si addentra in un apparente degradazione non solo fisica, più acquista “purezza” e si concilia con la misteriosa “voce” che è a tutti gli effetti la sua coscienza.

A questo punto va chiarito che il protagonista della storia di Gangemi è Ettore Majorana, lo scienziato catanese di cui si perde ogni traccia alla fine di marzo del 1938, anno sedicesimo dell’era fascista (a voler giocare con i numeri: la somma di 1938 fa 21, diviso tre (marzo), si arriva a “sette”; e sempre a “sette” si arriva se si somma uno e sei del sedici; sommare le sillabe che compongono il nome di Ettore Majorana si arriva a 14, diviso due, nome e cognome, si arriva anche qui a “sette”… ma ora basta con le “distrazioni”).

Fatto incontrovertibile è che Majorana, geniale per quanto inquieto scienziato, sparisce. Si imbarca sul postale Napoli-Palermo, lascia due lettere, manifesta la volontà di uccidersi. Ha 32 anni, è il fisico più geniale della generazione di Enrico Femi, sia pure in modo svogliato fa parte del famoso gruppo di via Panisperna. Scontroso, solitario, non è azzardato ipotizzare che abbia visto con anticipo quello a cui arriveranno, anni dopo, gli altri: l’atomica, i suoi devastanti, micidiali effetti. È per questa consapevolezza che decide di scomparire? Ha il timore, il rimorso che fascisti e nazisti possano usare quel tremendo ordigno, è questo il suo incubo? Interrogativi che ancora non hanno risposta.

Leonardo Sciascia, cinquant’anni fa, nel suo “La scomparsa di Majorana” annota: “In una manciata di polvere ti mostrerò lo spavento, dice il poeta. E questo spavento crediamo abbia visto Majorana in una manciata di atomi”, anche se subito dopo aggiunge: “Ha precisamente visto la bomba atomica? I competenti, e specialmente quei competenti che la bomba atomica l’hanno fatta, decisamente lo escludono. Noi non possiamo che elencare dei fatti e dei dati, che riguardano Majorana e la storia della fissione nucleare, da cui vien fuori un quadro inquietante…”.

Per Sciascia l’“affaire” Majorana è l’occasione per porre questioni che lo assillano: la responsabilità degli scienziati, dei “tecnici”, degli intellettuali. Non se la possono cavare con il classico: “Ho obbedito agli ordini”, o “Non sono responsabile dell’uso che si fa delle scoperte”. No: a una responsabilità, soggettiva e oggettiva non si sfugge. 

Ma conviene tornare a Gangemi e al suo romanzo, che non è “solo” un romanzo; una storia che non è “solo” una storia: “Su Majorana è stato scritto molto ma mai un romanzo”, spiega. “Dopo essermi documentato a lungo, ho voluto, partendo da fatti documentati, far muovere il protagonista che racconta lui stesso, con un io narrante anche esso inedito nei miei lavori, per ritrovare il senso di quegli anni così drammatici”.

Il Majorana di Gangemi scompare per scelta. Muta identità, si rifugia nella Germania nazista, si aggrega a un gruppo di scienziati impegnati nella ricerca dell’arma “definitiva”. Gangemi non crede all’ipotesi del suicidio (ipotesi che in effetti suscita molti interrogativi). Il “suo” Majorana è preda di mille dubbi, rimorsi, inquietudini, tormenti. In almeno un paio di occasioni, in Germania e in Venezuela, grazie a due donne, Herta e Morena, sembra aver trovato quella pace a lungo anelata; niente da fare. Ogni volta accade un qualcosa che lo riporta brutalmente nella casella di partenza. Majorana di volta in volta indossa i panni di Carlo Ferretti, Martino Sereni, Karl Weitner, Andreas Blankenhorn, Andrès Bini, di un barbone senza apparente arte e parte…

In questo tormentato peregrinare, incrocia personaggi disparati: il premio Nobel Otto Hahn, il criminale nazista Adolf Eichmann, un’inquietante umanità sud tirolese che non ne vuole sapere di essere italiana; un misterioso Armando, un pietoso Peppino Cuteri, il saggio e burbero Vestiano, il curioso avido di mondo Michele, il misterioso Armando, il medico panciuto del sanatorio di Bolzano, il monaco fratello Giovanni e il priore della Certosa, Franz, amico che non sa (o non può) perdonare un supposto tradimento… Racconta accattivante e cattura, con quella “lieve” ma più che profonda e insinuante descrizione di inquietudini, tormenti, contraddizioni.

Gangemi non è neutrale.  Parla attraverso il Priore, impegnato in un immaginato dialogo con Majorana: “Maneggiatela con cautela la scienza. Spingerla a varcare i limiti porta a dubitare, e a invadere territori che non appartengono all’uomo. Mi piace immaginare che hai lasciato per aver intravisto un oltre che ti ha dissuaso dal proseguire”. Majorana prova a obiettare con poco successo. Poi, molto dopo, quando fantastica con Herta del destino dell’annunciato figlio: “A chi somiglia, somiglia. Non sarà importante. Conta invece che sia più ignorante di una capra. Non dovrà essere capace di una moltiplicazione. Intelligente e però ignorante. Se lo bocceranno a scuola, meglio, festeggeremo. Così non farà la vita che è toccata a te, e in parte a me” dice Hertha. “Non farà lo scienziato. Studierà altro. Musica sarebbe perfetto, il pianoforte. E che tu abbia scelto Cecilie, se nasce femmina, già significa, sa di predestinazione.” “Giusto, tutto tranne che lo scienziato.” “È un lavoro sporco” convengo. “Meglio medico.” “Sì, medico...”.

Bello sarebbe se un ministro di quell’istruzione che si vuole ancora pubblica raccomandasse caldamente presidi e professori perché questo libro, unitamente a quello di Sciascia venisse adottato quale lettura almeno facoltativa e consigliata per gli studenti: libri, come è giusto che sia, di nessuna confortante risposta, ma di innumerevoli inquietanti domande; e per questo preziosi.

Mimmo Gangemi

L’atomo inquieto, Solferino

Una Costituzione per il mondo

Una Costituzione per il mondo

di Michele Minorita 

L’antidoto è suggerito da Miguel de Unamuno, uno dei più significativi intellettuali del ‘900 spagnolo ed europeo: “Il fascismo si vince leggendo, il razzismo viaggiando”. Ottimo per il tempo di Unamuno, tuttora valido ed efficace.

In un articolo per il quotidiano palermitano “l’Ora” Leonardo Sciascia ricostruisce un episodio accaduto il 12 ottobre del 1936, durante una cerimonia tenuta nell’aula magna dell’Università: “Ad un certo punto il generale franchista Millan Astry, invalido di guerra, grida il motto della Falange: “Viva la muerte!”. È la goccia che fa traboccare l’indignazione di Miguel de Unamuno.  “Sento un grido necrofilo e insensato: viva la morte! Ed io che ho passato la mia vita a creare paradossi che suscitavano la colera di coloro che non li capivano, io devo dirvi, come esperto in materia, che questo barbaro paradosso mi ripugna. Il generale è un invalido. Sia detto senza alcuna intenzione di sminuirlo. È un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Ma oggi, purtroppo, in Spagna ci sono troppi invalidi. E presto ce ne saranno ancora di più, se Dio non verrà in nostro aiuto. Mi addolora pensare che debba essere il generale Astray a dirigere la psicologia di massa. Un mutilato che non abbia la grandezza spirituale di Cervantes, cerca solo un macabro sollievo nel provocare mutilazioni attorno a sé”. Irato il generale Astray grida: “Abbasso l’intelligenza! Viva la morte!” E Unamuno: “Questo è il tempio dell’intelligenza. Voi state profanando il sacro recinto. E vincerete perché avete la forza bruta. Ma non convincerete. Perché, per convincere, dovrete persuadere. E per persuadere occorre proprio quello che a voi manca: ragione e diritto”.

Ragione e diritto: contravveleno alla forza bruta, all’arbitrio, all’arroganza del potere, dei poteri. Contravveleno per quell’eterno (non solo italico) fascismo che non esprime nelle forme comunemente intese (manipoli di squadristi, golpe militari); può benissimo indossare una maschera fatta di demagogia ed efficientismo fasullo, sedicenti tecnocrati e reali ciarlatani, spesso cretini incapaci, e per questo forse anche più pericolosi.

Queste pulsioni, questi rigurgiti, albergano in Italia, ma germinano e prosperano anche in paesi che si vantano d’essere culle di democrazia, d’un vivere ispirato alla forza del diritto e non al diritto della forza.

Per i possibili contravveleni si torna a de Unamuno: all’antidoto lettura, all’antidoto viaggio. Di possibili viaggi si può parlare in altra occasione. Per ora, la lettura. Una, preziosa, è costituita da uno smilzo libretto di Giuseppe Antonio Borgese, siciliano di Polizzi Generosa, ma ben presto cittadino del mondo. Raffinato critico letterario, docente universitario, è uno dei professori che non giurano fedeltà al regime fascista, e per questo la cattedra gli viene revocata. È il tredicesimo, e vai a capire perché se ne ricordano quasi sempre dodici. Trova rifugio negli Stati Uniti Borgese; e scrive quel “Goliath: the March of Fascism”, che per acutezza e capacità di analisi e “visione” vale una intera biblioteca di saggi sulla materia.

Borgese, nei giorni del suo esilio americano elabora una “utopia” di quelle che solo i “grandi” sanno concepire: “Una Costituzione per il mondo” che si avvale di una premessa di Thomas Mann e di una presentazione di Piero Calamandrei. Volume curato ottimamente da Silvia Bertolotti che firma anche la post-fazione.

Da questa post-fazione sfacciatamente saccheggio: “…è una proclamazione di principi, un organismo politico e un meccanismo giuridico, ma nel contempo rappresenta per volontà stessa dei suoi autori una proposta fatta alla Storia, un mito intriso di utopia, intendendo per mito ciò che incarnando la fede e la speranza della propria era, è un atto di mediazione tra l’ideale e il reale in grado di indirizzare l’elaborazione teorica verso la prassi dell’azione. Formulato negli Stati Uniti, attraverso un lavoro durato più di due anni e la produzione di oltre duemila documenti, i World Federalista Papers, vede la straordinaria combinazione di tre intellettuali di punta del dopoguerra: Borgese, Calamandrei, Mann…”.

Persuaso che “le idee appartengono alla realtà”, Calamandrei annota (siamo nel gennaio 1949, ma potrebbe aver scritto pochi istanti fa): “…il mondo si è contratto sotto i nostri occhi fino ad apparire veramente, anche negli orari delle linee di comunicazione, una piccola aiuola: e quando in qualche parte di esso scoppia un conflitto, ogni popolo è ormai costretto ad accorgerei che la guerra è lì, alle sue porte. La casa è così angusta, che non è più possibile accendere il fuoco in una stanza senza che tutta la casa s’incendi…”.

Questo “Disegno preliminare di Costituzione mondiale” si avvale della collaborazione, della scienza e del sapere di dieci eminenti studiosi (oltre che di Borgese stesso), e meritano di essere citati: Robert E. Hutchins, Mortimer J. Adler, Stringfellow Barr, Albert Leon Guerard, Harold A. Innis, Erich Kahler, Wilbert G. Katz, Charles H. MC Ilwain, Robert Redfield, Rexford Guy Tugwell; tutti luminari e docenti di diritto nelle sue varie branche.

Nella Nota di presentazione (badate, del 2 luglio 1948), Hutchins e Borgese scrivono: “…Non è una esagerazione il supporre che la presente Costituzione possa fornire sagome e capisaldi di studio, e istigare a ulteriori discussioni del problema del Governo Mondiale. Tale problema, fondamentalmente e in ultima analisi, è il problema dell’economia atomico. Fuor da quadro di tal problema generale è impossibile, non che risolvere, neppure tentar di risolvere i singoli problemi che travagliano il nostro tempo”.

Sogno, “visione”: sicuro. La “visione” che anima Cristoforo Colombo, la “visione” di un Giordano Bruno, Emmanuel Kant e Baruch Spinoza, dei padri costituenti gli Stati Uniti d’America e George Washington; più vicini a noi, le “visioni” di Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Ignazio Silone, Arrigo Benedetti, Altiero Spinelli, Filippo Turati e i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Marco Pannella…

Sono queste utopie concrete a essere il sale della terra, l’antidoto e il contravveleno di quell’eterno, mai domo fascismo che tanto duole e produce danni.

Giuseppe Antonio Borgese

Una Costituzione per il mondo – Edizioni Storia e letteratura

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